Fotografia: un poema epico in Sicilia
“La fotografia è racconto e messa in scena”, dice il critico d’arte Arturo Carlo Quintavalle, che ha scritto la prefazione del libro “Nzuliddu” (Vincenzino) di Simone Aprile, fotografo nato a Siracusa, che ha studiato a Milano i meccanismi della fotografia e si è formato professionalmente con Sandro Sciacca. Nella capitale dell’editoria ha lavorato per la Condé Nast e più recentemente con Ville&Casali.
Il ritorno in Sicilia
Da alcuni anni Aprile è tornato in Sicilia per ritrovare le sue radici e raccontare l’isola attraverso i suoi scatti, con una ricerca minuziosa e meticolosa della realtà. Egli dedica quest’opera ai figli con una precisa raccomandazione: “affinché non perdano la loro identità originaria, legata alla natura, alla terra e ai suoi ritmi”. Le foto del libro “Nzuliddu” hanno ricevuto già dei riconoscimenti internazionali, per esempio all’International Photo Award.
Fotografia: una storia vera
“Questa è una storia vera”, dice nella prefazione Quintavalle, “o meglio è traccia, segno, conferma del dialogo stabilito da Aprile con una coppia di vecchi contadini, lui nato nel 1927, lei nel 1922, che stanno sul loro campo, che lavorano il loro campo, lo coltivano, e vivono, vivevano, di quello che il campo stesso offriva. Questa storia va letta su piani diversi, certo come documento di un modo di lavorare la terra e di usarne i prodotti come hanno fatto molti altri fotografi prima di Simone Aprile, magari esaltando la retorica del primitivo, del supposto originario, ma va compresa soprattutto come documento di storia, una storia perduta che si racconta forse in qualche nota dei libri sul costume in Sicilia”. Aprile, infatti, non solo riesce a catturare una realtà in via di estinzione, ma ci offre una testimonianza storica sull’evoluzione dei costumi dell’isola.
Il dialogo con la terra
“Aprile ha voluto raccontare il dialogo con la terra, la fertilità della terra che si scava, che si scopre solo con enorme fatica e ha voluto raccontare in modo diretto la storia del lavoro, e il peso di questa storia che va indietro nei secoli”, aggiunge il noto critico. Spiega Aprile: “Lui (Nzuliddu) ha vissuto nel periodo del feudalesimo, lui e suo padre lavoravano il terreno dei nobili e dovevano sempre pagare un dazio, un pagamento in natura, e hanno fatto la fame. D’inverno non si mangiava, c’era poco o niente. N’zuliddu, allora bambino, rubò delle carrube e le nascose sotto il pagliaio. Il padrone, saputo del furto, lo raccontò al padre che per punirlo lo preso a bastonate”.
E poi aggiunge: “Mi ha affascinato quest’uomo dagli occhi buoni, ho deciso che volevo fare un lavoro su di lui. Poi ho conosciuto Concettina, sua moglie, solare, gentile, sorridente. Lei veste sempre colorato e la cosa mi ha stupito. In Sicilia gli anziani vestono di scuro. Ho pensato che volevo fotografare entrambi, anche se il titolo è rimasto ‘Nzuliddu, il mio racconto è su tutti e due, come coppia”.
Le foto sono state scattate dal 2008 al 2015, e non sono solo delle belle immagini.
Sono tasselli di un racconto, mosaico di una vita autarchica, frammenti di tradizioni tramandate di generazione in generazione, che probabilmente sono oggi giunte al capolinea. Gli scatti colgono la dolcezza e il peso della fatica, ma anche la pienezza dell’esistenza.
Simone Aprile ci racconta non tanto la contemplazione di una campagna perduta quanto, come dice Quintavalle, “l’epos di due protagonisti che da quasi un secolo dialogano con un’antica terra”.
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